Un secondo piccolo estratto di “Amarcord Biancoscudato”, il libro realizzato da Alessandro Vinci ed edito da Cleup. L’opera è disponibile alla Libreria Progetto di via VIII Febbrario e alla Feltrinelli di via San Francesco.

Lello Scagnellato: semplicemente il Padova. Un uomo, un lavoratore, un gran difensore

 

Se c’è un giocatore che nel corso della sua carriera ha incarnato lo spirito più autentico del Calcio Padova, questo è Aurelio Scagnellato, l’uomo che ha collezionato più presenze in assoluto con la maglia biancoscudata: ben 364 tra campionato e Coppa Italia dal 1951 al 1963. E già questo dato basterebbe a giustificare tale affermazione.
Scagnellato ha rappresentato un’epoca, quella più fulgida della storia della società, quella del grande Padova di Nereo Rocco e dei suoi panzer. Oltretutto con la fascia di capitano al braccio. Chi, se non lui, poteva esserne il titolare? Lui che era approdato all’ombra del Santo appena ventenne e che con il passare degli anni si era sempre più confermato come il vero leader della squadra fino a diventarne il capitano dopo il ritiro di Gastone Zanon. Lui che sul terreno di gioco era sempre in prima linea nel difendere l’inviolabilità della porta biancoscudata e che coordinava con autorità tutto il reparto (cosa mica di poco conto, data l’impostazione di gioco di quel Padova).
Ecco, sia ben chiaro sin da subito: in campo Scagnellato ci andava giù pesante.
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Occhio, però: Scagnellato non era un “macellaio”. Non picchiava a casaccio, né per fare del male. Certo, non risparmiava colpi proibiti e probabilmente non si sarebbe strappato le vesti nel vedere il suo avversario lasciare il campo, ma lo faceva per difendere la porta. Questione d’onore, questione d’amore. Lo faceva per portare a casa il pane, come ripeteva spesso a chi gli chiedeva il motivo di tanta irruenza. Era rimasto quello l’importante per lui. La Serie A? Il successo e la notorietà? Cose effimere e di poco conto per uno che aveva vissuto la guerra e aveva capito cosa voleva dire lavorare per guadagnarsi un pasto caldo da mettere in tavola. «Quando ero giovane si veniva da una guerra, c’erano sofferenze, c’era carestia, mangiare aveva davvero il significato di mangiare», confidò a Pino Lazzaro nel 2002.
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Lello era un capitano vero, il capitano ideale. Insieme a Blason, il vecio di cui il paròn si fidava di più. E sappiamo quanto questo ruolo fosse rilevante in quello splendido rapporto che si era venuto a creare tra squadra ed allenatore. Perché Rocco aveva bisogno di qualcuno, tra i suoi “manzi”, su cui poter contare: «Era un gioco delle parti», racconta Scagnellato. «A me e agli altri anziani del gruppo Rocco delegava volentieri delle responsabilità. Lui sapeva di andare fuori giri ogni tanto, quindi gli faceva comodo che qualcuno avesse l’autorità di riportare la calma, purché investito da lui». 
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Perché dietro a quell’immagine di arcigno difensore, dietro quel fisico temprato dal lavoro (quello con la elle maiuscola), c’era un uomo buono ed umile. Una persona con i piedi per terra che non amava mettersi in mostra, né tantomeno vantarsi dei propri traguardi. Eppure ne avrebbe avuto titolo.

 

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