Furio Stella ci ha lasciati questa notte. La penna più fresca e originale del giornalismo padovano si è spenta all'ospedale di Monselice dopo una lunga malattia. La Biancoscudati Padova si stringe attorno alla sua famiglia e a quella "allargata" del Mattino di Padova in questo giorno difficile. A beneficio di chi lo ha conosciuto e stimato, ma soprattutto per chi non ha avuto la fortuna di leggere le sue cronache biancoscudate, pubblichiamo qui di seguito il suo articolo di commiato al capitano di sempre Aurelio Scagnellato. Altri splendidi pezzi si possono trovare sul suo blog http://www.effervescienza.com

 

Addio Scagnellato
Lo storico capitano è morto a 77 anni: stamattina i funerali all’Arcella
(13 luglio 2008)

Caro Lello, so già quello che ti chiederai leggendo il giornale: tutta ‘sta roba solo per mì? E  storcerai il naso, bofonchiando qualcosa con la tue “erre” arrotata, perché finire sotto i riflettori, a te, non ti è mai piaciuto. In tutti questi anni te ne sei sempre rimasto in disparte, non ti sei mai messo in vetrina, né incarichi di prestigio né passerelle in tv, nonostante uno che si chiama Aurelio Scagnellato avrebbe potuto farlo mille volte meglio e più meritevolmente di chiunque altro. Se c’è difatti un giocatore simbolo, uno solo, da eleggere in quasi cent’anni di calcio a Padova, non ci piove che quello eri tu.

E non dirmi adesso che digo monàde: sta scritto o no sugli almanacchi che sei il giocatore che ha vestito più di tutti la maglia biancoscudata, varda qua, addirittura 349 volte in ben 13 campionati? Ed è vero no che sei stato lo storico capitano del più storico Padova di tutti i tempi, quello del paròn Nereo Rocco che allo stadio Appiani faceva tremare le grandi di serie A, e che nel 1957/58 arrivò addirittura terzo ma avrebbe potuto arrivare primo (per Gianni Brera ci sarebbe arrivato senz’altro) se solo gli arbitri in trasferta non vi avessero fischiato sempre e solo contro? Tu, il più padovano dei padovani, patronato dell’Arcella, anche se eri nato a Fortezza in provincia di Bolzano, ma solo perché il papà ferroviere c’era stato trasferito per un certo tempo per ragioni di lavoro.
Dunque, che ti piaccia ricordarlo o no, questo eri del Calcio Padova: un monumento. Un simbolo. La memoria vivente. Anche se non te n’è mai importato niente. Anche se la gloria passata l’hai portata come si porta un vestito qualunque. Visibile solo a chi, per età e competenza, la poteva riconoscere. Come quell’anziano dirigente al Sud – Palermo o Messina non mi ricordo: erano gli anni in cui accompagnavi ancora il Padova in trasferta ­– che all’ingresso dello stadio sentì pronunciare il tuo nome, “Scagnellato”, e subito scansò tutti, si profuse in inchini e complimenti, ti fece accomodare in tribuna e ti portò pure il caffè con la tazzina di porcellana.
Discreto eri e discreto sei rimasto. Umile, sempre al servizio della squadra. Capitano prima, poi dirigente, accompagnatore, anche direttore sportivo come ti capitò per due anni dal 1968 al 71 con Giovanni Lovato presidente, e naturalmente “anima” degli ex assieme ai tuoi amici Alfredo Schiavo e Gastone Zanon. Mai un fronzolo, un’alzata di tono e di voce, una vanteria qualunque. Neanche quando ti adulavano che ai tuoi tempi con te in difesa non passava nessuno, che avevi marcato i più grandi centravanti della serie A: Charles, Nordahl, Angelillo. E quando uno ti chiedeva com’è che avevi fatto a fermare Nordahl sui calci d’angolo, tu mettevi il tuo piedone sopra il suo e gli dicevi: “Ecco, così facevo”. E davanti alla sua meraviglia e alla sua bocca aperta gli rinfacciavi: “Ma davvero pensi che uno come mì poteva fermare uno come Nordahl?”. Mezzuccio che probabilmente in campo usavi davvero: ma era, appunto, la conferma della tua umiltà, che era poi l’umiltà vera e contemporaneamente la forza del Padova di voi “panzer”: quella di avere coscienza prima di tutto dei propri limiti. Nel sapere perfettamente dove può arrivare la gamba. Non un metro prima né un metro dopo.
Nel sapere anche cos’ è il sacrificio, quello vero. Cosa che tu, Lello Scagnellato, classe 1930, dunque passato in mezzo con la tua famiglia al ciclone della guerra, sapevi benissimo. Finita la terza al “Bernardi”, visto che i soldi in casa non bastavano, avevi già dovuto andare a lavorare. Prima che il Padova ti aprisse le porte come calciatore, nel 1951, prendendoti dalla Luparense (ma avevi iniziato nel Plateola), hai fatto di tutto: il carpentiere, poi addirittura il vetraio con il forno a ottocento gradi, infine da Casarotti quello delle macchine agricole e dei cartelloni stradali. “Quando lo raccontavo ai ragazzi, che avevo lavorato anche per 16-18 ore al giorno, mi guardavano meravigliati. Ora non si usa più, certo che no”, raccontasti dopo un incontro con i giovani dell’Antonianum a cui un tuo amico prete ti aveva invitato.
Non ha mai segnato un gol perché l’ordine drìo era di giocare coperti, però hai avuto una bandiera sola, quella biancoscudata. Non perché ti fossero mancate le richieste, la Lazio, le due Milano, anche la Juve, ma perché, come racconti anche nel bel libro di Pino Lazzaro che raccoglie le memorie di tutti gli ex, alla fine hai sempre preferito restare a Padova. “Avevo la mia famiglia e non me la sentivo di affrontare la grande città. Non mi ci sentivo preparato”.
Con tutte queste qualità, non ultima quella di saper giocare bene al calcio ed essere stato – da stopper come si diceva allora – uno dei pilastri difensivi del catenaccio (o meno dispregiativamente “mezzo sistema”) di Nereo Rocco, capitano c’eri diventato per forza. Perché aldilà della tecnica e della forza fisica avevi quel qualcosa in più: un alone, un’aureola, non lo so. So che eri già capitano, come ancora ti chiamava adesso il tuo più grande amico Toni Pin, prima ancora di diventarlo. E, da capitano appunto, eri l’unico che potevi rivolgerti al Paròn anche nei momenti in cui il Paròn era assolutamente inavvicinabile. Come quella volta ch fece il cazziatone a Boscolo, detto “Boscoleto”, per essere arrivato all’allenamento in ritardo di un giorno. “Chi, chi te ga dà il permesso?”, gli urlava Rocco. E Boscolo, impietrito, non osava dirgli quello che solo tu, fra tutti, osasti dire: “Signor Rocco, mi scusi se mi permetto, ma il permesso gliel’ha dato lei…”. (“Se lo dici tu, allora Boscolo xe perdonà”, concluse il Paròn).
O come quella volta che tu e lui, il Paròn, passaste alla sera tardi, usciti da “Cavalca”, sotto una finestra aperta da cui uscivano le voci e la risa di quattro tuoi compagni del Padova. Anche il fumo di sigaretta usciva. Rocco stava per salire e farli a pezzi tutti quanti, e invece tu lo fermasti sulle scale “per il bene della squadra”. Infatti la domenica vinceste e al lunedì fosti tu che ti eri preso la responsabilità, non il Paròn, a congelare a tutti e quattro i premi partita senza spiegare il perché, in quanto “il perché lo dovreste già sapere”. Difatti nessuno fiatò.

Per non parlare poi del momento più decisivo: quando Rocco, disperato per gli insulti della stampa sportiva contro l’”aberrazione”, lo “scandalo”, il “non gioco” del Padova in trasferta, si stava quasi per rassegnare a cambiare modulo. Ve lo chiese all’allenamento, cosa doveva fare, e anche quella volta l’unico a prendersi la responsabilità di parlare sei stato tu. “Signor Rocco – gli dicesti semplicemente – siamo tutti con lei”.
  Gheto finìo? Sì, Lello, ho finito. Lo vedo che hai deciso di andartene come sei vissuto, in punta di piedi, discretamente, quasi senza voler disturbare. Persino la stagione hai scelto: l’estate, quando il calcio non c’è, il campionato è fermo e così non faccio neanche stare male i tosi. Ma io tutte queste cose me le ho imparate da te, le ricordo e figuati se in questo giorno del cavolo potevo tenermele dentro. Te lo dovevo, caro vecchio Lello. Te ne dobbiamo in tanti. Stammi bene, e salutami tanto Rocco e Blason.